Non solo la neo-ministro Mariastella Gelmini condivide con i suoi predecessori – di destra e di sinistra – la scarsa originalità di intervenire nel mondo dell’università e della ricerca con l’ennesimo decreto legge: con gli intenti dichiarati, riassumibili nell’acronimo MAV (merito, autonomia, valutazione), si inserisce nel solco già tracciato da questi ultimi, portando alle estreme conseguenze il progetto di “trasformazione” dell’università italiana iniziato con l’introduzione dell’autonomia negli anni ’90.
“Facoltà di trasformazione in fondazioni delle università”, recita così l’articolo 17 del decreto legge che anticipa la manovra economica che il governo Berlusconi ha in serbo. Dove la parola chiave è “trasformazione”: non costituire, non partecipare, bensì trasformare appunto, e cioè trasferire per intero un patrimonio pubblico in senso lato (non solo, e più banalmente, dunque, gli immobili, ma anche una parte fondamentale della formazione pubblica italiana) a favore di soggetti privati.
Condividiamo le preoccupazioni espresse in questi giorni da molti dei compagni della CGIL che, comprensibilmente, si interrogano su come si possa stornare per decreto il patrimonio dello Stato a un ente di diritto privato, e siamo ulteriormente preoccupati per una misura che andrà a colpire, a nostro giudizio, direttamente la vita non solo di chi lavora all’università, ma anche di quelle tante e di quei tanti che vivono l’università da studenti.
Come e a chi, infatti, verrà garantito l’accesso alle università di “nuovo conio”?
Quale diritto allo studio è ipotizzabile – diritto allo studio già oggi non garantito spesso dall’università pubblica – in una struttura di fatto privata?
Come può l’attuale Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca Scientifica della Repubblica Italiana disattendere così platealmente l’articolo 34 della Costituzione di cui dovrebbe, invece, farsi garante attraverso il proprio dicastero?
Negli anni scorsi abbiamo denunciato l’aziendalizzazione strisciante delle nostre università, e abbiamo contrastato ogni ipotesi che tentasse di lasciare mano libera al privato.
La proposta della Gelmini di trasformare le università in fondazioni rappresenta l’incarnazione della più nera delle nostre previsioni.
Anziché per un ripensamento serio e di ampio respiro dell’università italiana, afflitta dalle pesanti conseguenze con cui i provvedimenti del periodo recente l’hanno investita, il ministro ha optato ancora una volta per il decreto legge.
Anziché raddrizzare le storture di un sistema in cui a farla da padrone sono la competizione e il far cassa dei singoli atenei, lasciati languire da finanziamenti statali sempre più esigui, la Gelmini ha scelto di buttare il futuro dell’università italiana alle ortiche, consegnandola nelle mani del privato. Anziché garantire un vero diritto allo studio ai bisognosi – e non ai soli meritevoli – e rendere concreto l’accesso a un’università di qualità, la Gelmini ha pensato di risolvere il problema sancendo, una volta per tutte, il principio di un’istruzione superiore assicurata solo a quanti potranno economicamente permettersela.
Un’università finanziata dallo Stato e aperta a tutti, in cui la ricerca sia libera e non dipenda dalla volontà di chi ha i soldi per farla o per farla fare, nella quale gli studenti non siano dei passivi clienti o, peggio ancora, dei semplici finanziatori: questo è ciò di cui abbiamo bisogno in Italia.
L’ennesima declinazione classista dell’università, immaginata dalla Gelmini, non è quello per cui ci siamo spesi in questi anni, bensì ciò contro cui intendiamo batterci dall’autunno prossimo. E se non ora, veramente, quando?
Francesca Scarpato